lunedì, febbraio 15, 2010

Discriminazione retributiva: donna, l'insostenibile leggerezza della busta paga


di Nazzarena Luchetti

Lilly Ledbetter era un’operaia della Goodyear. Al momento della pensione fece 4 calcoli e si rese conto che per 19 anni l’avevano pagata meno dei colleghi uomini pur ricoprendo le stesse mansioni: riceveva una paga inferiore solo perché donna e l’azienda, così facendo, aveva risparmiato 200mila euro. Un anno dopo in Usa è stata approvata la legge ”Lilly Ledbetter” per l’equità salariale, intitolata alla donna che se n’era fatta promotrice. Lei non è stata risarcita ma tutte le donne americane non saranno più discriminate. Almeno sulla carta, perché la parità, spesso, è più dichiarata che reale.
In Inghilterra solo lo scorso anno ci sono state ben 44mila cause di lavoro legate a discriminazioni retributive. In Italia secondo la legge 125/91, “E’ discriminazione qualsiasi atto, patto o comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando, anche in via indiretta, i lavoratori in ragione del sesso”. Di recente sono state introdotte nuove norme con il decreto del 25 gennaio 2010 che s’integrano con la direttiva del 2006 sui principi delle pari opportunità e della parità occupazionale. Questi strumenti stabiliscono l’illegalità nel discriminare le donne pagandole meno degli uomini a parità di lavoro.
Un recente rapporto della Bocconi sulla differenza salariale evidenzia che la donna guadagna tra il 23% e il 25% meno di un uomo (consoliamoci, in Francia la differenza è addirittura del 42%: altro che vie en rose!).
In altre parole, non serve rilanciare la produzione e combattere la disoccupazione se insieme non si assicurano misure contro la discriminazione. La disparità salariale tra uomini e donne comporta povertà anche in età avanzata perché il divario retributivo si riversa sulle pensioni.
Il settore del terziario e dei servizi è quello dove emergono di più le differenze salariali: qui 1/3 delle donne è sotto ai 1000 euro al mese e appena 1/5 supera i 1500 euro; se il salario femminile viene stabilito con contrattazione individuale ci sono più differenze, mentre si registrano minori disparità nella Pubblica Amministrazione. Nonostante il raggiungimento di titoli di studio elevati offra alle donne maggiori opportunità di retribuzioni, la differenza permane: solo il 38% delle donne laureate, rispetto al 54% degli uomini raggiungono livelli di retribuzione oltre i 1500 euro. Il gap cresce con una scolarizzazione inferiore: il 46% delle donne con un basso livello di istruzione sta sotto i 1000 euro mensili contro il 25% degli uomini con pari titolo di studi.
La disparità è legata anche alle dinamiche occupazionali di alcune zone d’Italia: dal Nord al Sud si allarga la forbice della diversità e si evidenziano più consistenti condizioni di svantaggio per le donne.
Ma quali sono i motivi per cui le donne guadagnano meno degli uomini? La ricerca della Bocconi rileva che il problema vero sta negli attuali modelli culturali e sociali: per il solo fatto di essere donna comporta un inquadramento più basso, per non parlare delle donne in posizioni di potere che si trovano spesso a spiegare all’interlocutore che lei non è la segretaria del capo ma il capo in persona. Essere uomini e avere la busta paga più pesante è frutto della vecchia convinzione che l’uomo mantenga la famiglia e quindi meriti di più. Non è un caso che in molti uffici non si chieda mai: “Quanto guadagni?” Le disparità nell’immaginario collettivo sono considerate normali: una donna che chiede è una donna che sceglie il confronto (alla pari), che usa la logica, la razionalità, la forza dei fatti, dove invece il pregiudizio vuole la dolcezza l’accondiscendenza, la passività. Molte rinunciano ai propri obiettivi e hanno un atteggiamento rassegnato, non discutono il contratto di lavoro, e pensano che basti lavorare bene per essere premiate, anche senza chiedere, spesso invece chi non chiede non ha. Si accettano disparità per paura di perdere il posto di lavoro. Eleanor Roosevelt affermava: “Nessuno può farti sentire inferiore senza il tuo consenso”, ciò vuol dire che le donne devono impegnarsi di più per difendere i loro diritti.
Spesso gli atteggiamenti poco corretti di alcune donne (come rimanere in maternità oltre il tempo necessario) creano il dubbio di poter contare davvero sulle risorse femminili. Maggiore consapevolezza di sé, superamento di pregiudizi e del confine dei ruoli costituiscono il presupposto per ottenere la parità: prima di tutto sociale.

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